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La
fusione di atmosfere è il tratto distintivo di questo secondo lavoro
dei Clessidra. “Carta
Malabarica” presenta infatti una notevole commistione di stili e di
sensazioni, una commistione che
copre
distanze ragguardevoli: dalle estatiche sonorità orientali,
all'elettronica morbida ed asettica tipica dei club d'avanguardia
delle metropoli europee; il tutto in sole otto tracce e con una
coerenza e linearità assolutamente degne di nota. Colpisce
l'antitesi tra la sezione ritmica, chirurgica e
frammentata,
e le chitarre (e in taluni episodi fiati e tastiere) che tratteggiano
melodie eteree ed
oniriche. Benchè
la matrice sia chiaramente post rock, “Carta Malabarica” fornisce
sensazioni chiaramente
meno
asfittiche e maggiormente legate ad un qualche senso di ricerca di un
suono “globalizzato”
che
ne fa a mio avviso un album art-rock a tutti gli effetti: i 4 minuti
e 19 secondi del rito vodoo “ The Kadath”, i
crescendo
serrati di “Giza”, la bellissima “Tunguska part1”, le tastiere
80's
di “Gobekli Tepe” e la glaciale “Tunguska part2” riassumono
al meglio i tentativi di questo
gruppo
di superarsi costantemente, e di trascendere i limiti spaziali ed
emotivi che ci attanagliano.
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Prodotti dal collettivo toscano Manza Nera, i Clessidra sono l’ennesima declinazione della fiorente scena psych italica. Quello che però distingue il gruppo toscano, formato da Massimiliano Mori alle chitarre e ai fiati,Simone Nieri alle pelli e alle tastiere, Edoardo Petrotto al basso e alle percussioni e il factotum Andrea Pecchia, è un radicarsi delle divagazioni ambientali ed etniche da fumeria d’oppio su una solida e moderna base post-rock. Ascoltando il concept “archeologico” Carta Malabarica si è subito presi nel fluire delle chitarre che richiamano gli intarsi dei texani Explosion in The Sky o alcune cose più fumose dei Do Make Say Think, ma con un cipiglio tutto mediterraneo, in una sorta di rilettura e ripresa della mutazione che le band prog della penisola misero in atto nei primi anni 70. Senza dubbio più che al manierismo e al malcelato sentimento epigono nei confronti di Albione delle band prog, i Clessidra riportano alla mente certe esperienze limite come quelle dei Third Ear Band o ai krautismi afro degli Ash Ra Tempel. Ma, la loro è una geografia “arcaica”, popolata di fantasmi e di leggende, come nei taccuini di viaggio dei primi esploratori che guardavano all’Oriente come alla patria del Prete Giovanni o che in mancanza di dati precisi improvvisavano tratte fantastiche. Un esotismo non filologico, ma interiore, lontano comunque da quello ormai biedermeier in cui la world music da tempo è reclusa: a fare da semplice arredamento sonoro. Lo spazio interiore e onirico tratteggiato dalla lussureggianti mappe dei Clessidra ha qualcosa di pericoloso e ostile: un insondabile desiderio di strappare all’ovvietà e al noto quel continente ormai ampiamente esplorato e rubricato sotto la accomodante categoria del post-rock.
Tonio Troiani
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